Storia di molti silenzi, quella del disastro del Vajont è una vicenda che si offre a un laborioso processo di ricomposizione della memoria, uno sforzo che nel corso degli anni si è arricchito di contributi eterogenei. Questo in virtù soprattutto di una ricca e multiforme produzione a stampa – tra monologhi teatrali (su tutti: la celeberrima "Orazione civile" di Marco Paolini) e inchieste giornalistiche – e in seconda battuta, e in misura senz’altro più modesta, attraverso il cinema, che al grande pubblico ha consegnato soltanto un titolo: la controversa megaproduzione italo-francese "Vajont. La diga del disonore" (2001), per la regia di Renzo Martinelli. Una produzione documentaristica per il grande e il piccolo schermo, comunque piuttosto esigua, annovera tuttavia apporti significativi in ordine alla ricostruzione del “prima” e del “dopo”, offrendo prospettive di lettura “eccentriche” che, tralasciando l’enormità irriducibile della tragedia in sé – che viceversa diventa baricentro narrativo della “spettacolarizzazione” parahollywoodiana, da "disaster movie", attuata da Martinelli –, privilegiano piuttosto la testimonianza. Il saggio si propone come una dettagliata disamina di questi contributi cinematografici “laterali” e poco noti, esaminati cronologicamente dal primo ("Uomini sul Vajont", diretto da Luciano Ricci, risale addirittura al lontano 1959, ed è incentrato su una trionfalistica glorificazione della “grande opera”) fino all’ultimo ("Vajont '63. Il coraggio di sopravvivere", realizzato da Michele Barca e Andrea Prandstraller nel 2008, incentrato sull’azione dei Vigili del Fuoco e sulle testimonianze dei superstiti). Riconsiderare con attenzione queste risorse “minori” appare pertanto un’operazione motivata: significa situare la sciagura in un contesto, risarcirla di una cornice, restituire l’emozione tutta “di pancia” provocata dall’esposizione della catastrofe a una dimensione più riflessiva e storiograficamente compiuta.
(Marco Rossitti)