Pensare a città capaci di reagire a condizioni di rischio e vulnerabilità non significa solo concepire dispositivi in grado di mitigare gli impatti e adattarsi alle situazioni indotte dai grandi cambiamenti che, sempre più rapidi e interconnessi, oggi riguardano il clima e l’ambiente, l’economia e la società. Non significa ripiegarsi sulla ricerca di una via differente per ripristinare le funzionalità che a lungo abbiamo attribuito ai sistemi urbani. Comporta piuttosto assumere i cambiamenti in atto come motore per praticare una profonda discontinuità rispetto ai modelli di sviluppo, alla valutazione dei loro limiti, all’idea di vivibilità e benessere, alla fiducia nella linearità delle relazioni causa-effetto cui la modernità ci aveva abituati. Forza a rivedere paradigmi e a mutare prospettiva, per delineare un modo diverso di abitare il territorio e di avere cura delle sue risorse, a partire da quelle ambientali.
Mai come oggi si avverte infatti, almeno in chiave teorica, la necessità di intrecciare urbanistica e ambiente. Da sfondo settoriale di riferimento delle scelte spaziali, il risparmio e la gestione responsabile di suolo e acqua, aria ed energia sono chiamati a diventare i principali campi di azione di una nuova generazione di strumenti di piano e progetto, il cui obiettivo è fondare un’altra idea di città, immaginare una funzionalità urbana che progressivamente costruisca uno status di antifragilità. È in questo solco operativo che si colloca il Piano regolatore generale di Trieste, recentemente giunto ad approvazione attraverso un confronto serrato con le tante occasioni e difficoltà che una svolta culturale inevitabilmente comporta.