Se il mito è uno degli strumenti di cui gli uomini di tutte le latitudini e culture hanno fatto ricorso per imporre ordine e ragione al caos, per spiegare l’origine del mondo e del clan, per spiegare ciò che nell’immediatezza della percezione risulta incomprensibile e anche spaventevole, se il mito è, insieme con la filosofia, l’arte, la scienza e la tecnica, uno degli utensili per la «ricostruzione» del mondo, allora questo strumento non è tra quelli adoperati da Montale. Ma, non si può certo dire che Montale ignori del tutto il mito: inserito com’è, e robustamente, in una tradizione letteraria e poetica che affonda le sue radici nell’antichità classica greca e latina, egli inserisce nella sua opera personaggi, richiami, allusioni, cenni; ma più o meno allo stesso modo in cui inserisce termini o personaggi marini o agricoli o silvestri. Sicché, lungi dal rappresentare una suggestione vuoi poetica vuoi filosofica vuoi drammatica, questi reperti mitologici appaiono come quelle colonnine consunte o quelle lapidi semicancellate o quelle pietre sbreccate e sbilenche che, sottratte a qualche tempio di Roma antica, si vedono talora incastonate nella facciata di una chiesetta di campagna o di un palazzotto della città vecchia. Al pari delle altre pietre e dei mattoni, la colonnina o la lapide di recupero hanno una funzione puramente strutturale, di sostegno, e nessuna pretesa simbolica, esornativa o rammemorativa che stia oltre il loro essere lì.