In queste brevi riflessioni non intendo approfondire lo statuto ontologico ed estetico dell’improvvisazione3, né occuparmi
della diffusa idea che l’improvvisazione, per le sue caratteristiche ontologiche ed estetiche, richieda e incoraggi un’estetica
dell’imperfezione4 — un’idea che, peraltro, ritengo del tutto inadeguata, in quanto riposante su un’inaccettabile concezione
formalista dell’esperienza estetica e del valore estetico. Piuttosto, m’interessa concentrarmi su un aspetto particolare delle pratiche improvvisative, l’interazione improvvisativa, per mettere in luce un aspetto particolare della portata estetica dell’improvvisazione,
che mi pare essere filosoficamente assai pregnante.
Peraltro, alla fine di questa operazione mostrerò che ciò facendo avrò, ancorché indirettamente, posto le basi per smontare
l’idea di un’estetica dell’imperfezione—una proposta teorica che sta e cade con l’accettazione della tesi, di cui già Kant ha dimostrato tutta l’inconsistenza, che, in generale, l’estetica abbia a che fare con la perfezione.