Opzioni
Abstract
Nell’introduzione alla Guida rapida alla pinacoteca dell’Università di Trieste, Nicoletta Zanni afferma come probabile sia che il soggetto dei Tafferugli (in realtà il titolo riportato sul talloncino è Il tafferuglio) di Maccari rimandi alla violenta soppressione – ordinata alla polizia civile dal Governo alleato – di alcune manifestazioni patriottiche che, circa un mese prima, a Trieste, aveva portato alla morte di sei giovani. Se stimolante è credere che, per l’esposizione del 1953, Maccari avesse scelto proprio un’opera raffigurante uno scontro di piazza, siamo certi che, ad essere presentato, non sia l’episodio accaduto a Trieste. Da un lato, il fatto che l’opera sia passata per la mostra dell’arte italiana organizzata a Stoccolma dalla Biennale veneziana nella primavera del 1953 fornisce una solida prova di una datazione sicuramente anteriore agli episodi di violenza verificatisi a Trieste. Dall’altro, l’opera presentata alla mostra triestina e, prima, a Stoccolma è riprodotta nel numero del 6 febbraio del 1952 de “Il Mondo” di Mario Pannunzio (Maccari, assieme ad Amerigo Bartoli, è stato autore delle vignette che hanno accompagnato la rivista a partire dall’anno della fondazione) e accompagnata dalla didascalia: “Studenti fascisti dell’Università di Roma hanno aggredito l’on. Calosso durante le sue lezioni” (Calosso, socialista, era stato anche membro della Costituente). Inoltre, sulla scorta di un gusto che, dagli anni del “Selvaggio”, Maccari aveva traguardato alla prima età repubblicana, accanto alla didascalia compare il motto “Bastonatelo! Saremo bocciati, ma riavremo l’Impero”. Vero è che la questione di Trieste era bene impressa non solo nella mente degli autori delle pagine politiche de “Il Mondo”, ma anche in quella di Maccari che, il 26 ottobre del 1954, sulla medesima rivista avrebbe pubblicato un disegno raffigurante un’altra rissa, stavolta verificatasi alla Camera proprio nell’ambito di una discussione sul destino della città giuliana. La comparsa – a stampa – de I tafferugli su “Il Mondo” e, contestualmente, la possibilità di individuare l’opera originale nella china conservata presso il Rettorato, costituisce un’eccezione per un artista che, appunto, dagli anni de “Il Selvaggio” fino al secondo dopoguerra non si è mai curato di organizzare la conservazione degli originali. Per uno sguardo complessivo sull’opera di Maccari, che Federico Zeri ha definito “uno dei più straordinari grafici del nostro secolo” (tale definizione, del 1985, è riportata in Mino Maccari, Torino, Edizioni d’arte Sant’Agostino, 1988), restano riferimenti ineludibili: per le incisioni, il Catalogo ragionato a cura di Francesco Meloni (Milano, Electa, 1979); per i dipinti, i volumi appartenenti alla serie di Maccari a dispense (Firenze, dal 1984); manca, tuttora, anche per le difficoltà cui si è fatto riferimento più sopra un’opera sistematica sui Disegni. Emerge, nitida, la figura di un artista che, come ha scritto provocatoriamente Alessandro Parronchi (Mino Maccari, Focette, Galleria d’arte moderna Falsetti, 1974), chi è nato dopo il 1910 comprende con difficoltà: tenacemente conservatore, fedele ad una provincia che, pure nutrita di cultura italiana ed europea (Roberto Longhi ne ha parlato come di un “selvaggio tanto avvisato che è quanto dir tutto salvato”) fosse carica di moralità – a tratti, moralismo –, “rettamente intesa” (lo sottolinea Paolo Rizzi in Antologia alla Galleria d’arte Sagittaria, Pordenone, GEAP, 1970) ed esprimesse significati “traducibili in parole”, nella seconda metà del secolo Maccari resta orgogliosamente estraneo ai nuovi formalismi astratti o a tentazioni espressionistiche. Scarsi, dopo le sale concesse alla Biennale del 1938 ed alla Quadriennale del 1939, i riconoscimenti concessi a Maccari dalla critica e dal sistema delle arti in Italia. È Carlo Ludovico Ragghianti, col suo Il Selvaggio di Mino Maccari (Venezia, Neri Pozza, 1955), a riportare all’attenzione dell’Italia repubblicana il particolare profilo dell’artista e, più in generale, il significato della cultura di fronda e delle battaglie di Strapaese, favorendo il superamento del cliché arte del Ventennio-arte fascista. Si torni, infine, sulla Biennale del 1952, attorno alla quale resta viva una suggestione. In una curiosa analogia tematica – e in altrettanto evidente difformità stilistica e storica – i Tafferugli di Maccari erano presenti all’esposizione veneziana assieme ad un altro celebre scontro di piazza, questo però tutto milanese e collocabile nei pressi della Galleria Vittorio Emanuele: La rissa in Galleria di Umberto Boccioni, opera sistemata nella sezione del Divisionismo in Italia, sezione presentata nel catalogo della mostra (p. 390 e sgg.) da Marco Valsecchi