L’articolo si propone di esaminare il ruolo assegnato alla lingua nel teatro di Dario Fo e il trattamento dell’ampia gamma di varietà linguistiche nelle traduzioni tedesche di Peter O. Chotjewitz. L’analisi contrastiva si basa su alcuni esempi tratti dalle sue opere 'Gli arcangeli non giocano a flipper e Mistero buffo'. Verranno sottolineati particolari aspetti attinenti alle dimensioni diatopica, diastratica e diafasica e al 'pastiche' dialettale. Si affronterà inoltre il problema più ampio dello statuto di “originale” e della traducibilità delle opere di Fo. Dall’analisi risulta che la contaminazione dei vari linguaggi adoperati, come mezzo di trasgressione, veicola un messaggio politico. Il testo è per così dire “secondario”, in quanto riproduce l’attuazione scenica, e sempre incompiuto. Come testo scritto, la traduzione non è atta a trasportare tutto il messaggio semantico, trasmesso nell’“originale” anche da gesti e mimica. Mentre Chotjewitz rende bene l’effetto comico e il sapore popolare delle varietà linguistiche adoperate, ne attenua invece il colorito locale. La tendenza di “omogenizzare” il linguaggio è più accentuata laddove Fo, come nel 'Mistero buffo', ricorre a un 'pastiche' più complesso.