Le parole di Gillo Dorfles sono forse le più calzanti per descrivere la storia artistica di Miela Reina. «Una delle pochissime autentiche artiste che la seconda metà del nostro secolo abbia concesso a Trieste […] è stata la sola artista dell’area giuliana ad aver creato […] un’opera non solo degna di essere ricordata e studiata, ma degna di essere considerata come una solitaria e inimitabile avventura della fantasia» (G. Dorfles, Miela Reina. Dal 1960 al 1965, in Miela Reina, a cura di C. De Incontrera, Milano, Electa, 1980, p. 34). Possiamo individuare due fasi nella produzione della breve vita della Reina. Una prima, che arriva fino agli anni 1965 e 1966 nella quale sono prevalenti caratteristiche narrative piuttosto che astratte con «un’insolita e autonoma organizzazione spaziale» (G. Dorfles, Miela Reina…, cit. p. 41). Una seconda fase, dal 1967, nella quale confluiscono suggestioni della Pop Art, dei fumetti e riferimenti al Dadaismo che dà vita a una sorta di teatrino permanente ove i personaggi fantastici narrano le loro poesie. L’opera che appartiene al patrimonio dell’Università di Trieste è un preclaro esempio del primo periodo. È singolare che la tempera, nel suo insieme e nei dettagli, anticipi straordinariamente le opere di Jean-Michel Basquiat (New York, 22 dicembre 1960 – New York, 12 agosto 1988). In realtà Miela Reina elabora il suo immaginario cromatico e grafico non dal linguaggio pittorico, prossimo al grado zero, del graffitismo di strada, bensì da James Ensor e dalla grafica e dalla pittura degli artisti della Die Brücke – e in misura minore da Paul Klee – e dalla Wiener Secession (a tale proposito si noti la grafica della data e firma in alto a destra). Tuttavia, la rielaborazione di queste fonti visive avviene in maniera originale, associata a simboli ossessivi propri dell’artista triestina: forbici, cuori- bretzel, buste postali e frecce. Questo iconismo a tratti inquietante figura anche nella tempera del ’65. Sarebbe un errore considerare questi dipinti come l’espressione di un’artista dai mezzi figurativi limitati e infantili. Come ricordava l’insegnante e artista Livio Schiozzi, le opere della Reina sembrano naïf solo all’occhio di chi le intrepreta riduttivamente in tal modo. Da notare che l’uso della tempera, poi ampiamente adottato dallo stesso Livio Schiozzi nel laboratorio didattico di decorazione pittorica dell’Istituto Statale d’Arte E. U. Nordio di Trieste, fu anticipato dalla Reina, la quale aveva anche un vero e proprio talento anche nel campo didattico (G. Roli, Miela Reina nella scuola, per la scuola, in Miela Reina…, cit. p. 30).