Con la scrittura stenografica che gli era propria, Seibezzi scrisse il 26 agosto 1953 che avrebbe aderito all’iniziativa “con vero entusiasmo”. La sua pittura corsiva, fatta en plein air, attenta a cogliere la mutevolezza del paesaggio con pochi tratti, era già stata celebrata in diverse Biennali veneziane e Quadriennali romane, alle quali il pittore partecipava continuativamente. Il Canale di Mazzorbo non divergeva affatto da questo iter, che aveva trovato la sua piena maturazione tra il 1926 ed il 1932, dove “non si può non riconoscere il talento eccezionale di un pittore che aveva allora poco più di venticinque anni”. Rispetto ai colleghi lagunari, come Dalla Zorza, Seibezzi recupera costantemente una tradizione veneta del paesaggio, richiamandosi alla forza brevilinea di Guardi e al vedutismo canalettiano per una regia implacabile, come sosteneva Gino Damerini, utilizzando il colore con parsimonia e caratterizzando la tela da segni concisi per descrivere gli elementi che vivono nel paesaggio. In questo senso egli fu l’ultimo interprete di una pittura vedutista tutta di stampo veneziano. Vale la pena ricordare che, nonostante il critico Paolo Rizzi ravvisasse un’apparente superficialità nel suo diretto postimpressionismo, egli fu autodidatta autentico e anche l’opera del 1953 così veemente e spedita, lo testimonia.