Opzioni
Titolo
Ritratto di Umberto Saba
Creatore
Levi, Carlo
Abstract
Anche considerati disegni, incisioni e il clamoroso caso di Lucania ’61, opera che fu inviata a rappresentare la Basilicata alla Mostra delle Regioni allestita a Torino in occasione del centenario dell’Unità d’Italia e nella quale l’artista sistemò (tra la folla intenta ad ascoltare un discorso di Rocco Scotellaro) tanto sé stesso, quanto il poeta triestino, due sono i più noti ritratti di Umberto Saba realizzati da Carlo Levi: il riferimento corre alla tela conservata presso la Galleria Nazionale d’Arte moderna di Roma portata a termine attorno al 1950 e quella, di dimensioni leggermente maggiori, presentata a Trieste alla mostra del 1953. L’attenzione di Levi nei confronti di Saba va letta secondo due chiavi interpretative: da un lato c’è l’amicizia personale tra due artisti – sarebbe forse il caso di dire che l’amicizia fu a tre, contando anche Linuccia, la figlia di Umberto, cui Carlo è stato sentimentalmente legato: il carteggio tra Carlo e Linuccia è stato pubblicato nel 1994 per la cura di Sergio D’Amaro – incontratisi per la prima volta alla metà degli anni Venti, quando Saba aveva già dato alle stampe la prima edizione del Canzoniere, e di nuovo vicini a Firenze, nel 1943, quando entrambi trovarono riparo dalla persecuzione fascista presso Anna Maria Ichino. Dall’altro, l’incontro tra i due va letto nella più ampia prospettiva della ricerca di contatti nazionali, di un aggiornamento culturale dal respiro europeo di molta della migliore intellettualità giuliana insoddisfatta dagli orizzonti prospettati, a Trieste, dalla rotta politica e culturale dei liberalnazionali; tale vocazione è confermata dalla formazione fiorentina di molti giuliani a partire dai primi del Novecento e dalla stagione de “La Voce”, questione messa a fuoco, per esempio, nell’ambito della ben concertata mostra documentaria Intellettuali di frontiera. Triestini a Firenze (1900-1950) del 1983. Dentro questo discorso, che qui non è possibile approfondire, si spiegano anche le ragioni per le quali Levi, nel 1941, abbia lavorato al ritratto di Bobi Bazlen (opera per la quale si rimanda a Carlo Levi a Matera. 199 dipinti e una scultura, catalogo della mostra di Matera, a cura di Paolo Venturoli, Roma 2005, cat. 114, p. 226). Nel ritratto conservato presso il rettorato triestino, “uno dei più notevoli esempi di introspezione psicologica che Levi ci abbia dato” (Gioseffi, “Il Giornale di Trieste”, 22 dicembre 1953; la lettura psicologica è stata la più battuta, anche fuori della rassegna stampa dell’esposizione: lo attesta il fatto che, per ragioni perlopiù connesse col mito letterario della città di Edoardo Weiss messo a fuoco, per esempio, da Giorgio Voghera nel celebre volume Gli anni della psicanalisi, la tela sia stata esposta nel contesto della mostra del 2004 Arte e psicoanalisi nella Trieste del Novecento), la figura di Saba emerge su un paesaggio brullo, secco, spogliato di presenze umane, sotto un cielo livido. Fatta eccezione per le spoglie arcate di un viadotto, o un acquedotto riconoscibile al di sopra della spalla destra della figura del poeta, e di una costruzione visibile alla sinistra della sua testa, sono azzerati anche gli elementi architettonici. Un paesaggio che, come suggerisce anche Lucia Tranquilli sulle colonne del “Popolo nuovo” di Torino (6 dicembre 1953), si è indotti a credere carsico; un paesaggio, tuttavia, disumanato, seccato, i cui pochi edifici sono puliti da un filtro antistorico, tutto mentale; una triestinità portata fuori dal tempo, con una operazione che, per esempio, il poeta Virgilio Giotti, anch’egli, come Saba, tra i giuliani a Firenze (o, meglio e significativamente, a San Felice a Ema, lontano dai circuiti cittadini e dagli ambienti vociani), aveva imposto al proprio dialetto, al proprio linguaggio poetico. Lievemente china, dolente, la figura del poeta pare evitare di sostenere lo sguardo dello spettatore; sembra, piuttosto, suggerire rispondenze con un paesaggio diretta filiazione di uno stato d’animo di profonda prostrazione. Le stesse pieghe del camiciotto, nervose, segnate con vigore, espressionisticamente, così come quelle che solcano il collo gonfio paiono, assieme alla presa incerta, fiaccata, impressa sul bastone dalla mano sinistra di Saba, concretarne i pensieri angosciosi, tortuosi, gli affanni esistenziali. Non estranea alla concezione del dipinto deve essere stata la preoccupazione con la quale Levi, in quei mesi, si teneva a giorno circa le condizioni di salute del poeta, affetto da una depressione venuta aggravandosi tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta.